Immaginate di entrare in una galleria d’arte contemporanea. Davanti a voi, una tela completamente bianca con un taglio nel mezzo. Prima reazione? “Questo lo sapevo fare anch’io!” Ma aspettate un secondo. Quel taglio di Lucio Fontana non è solo un gesto vandalico su una tela – è filosofia pura che prende forma. È l’idea dello spazio che si apre all’infinito, del superamento della superficie bidimensionale. Vedete come funziona? L’arte contemporanea senza filosofia è come la carbonara senza guanciale: tecnicamente possibile, ma perde tutto il senso.
La verità è che filosofia e arte contemporanea sono così intrecciate che separarle sarebbe come cercare di dividere il tuorlo dall’albume in una frittata già cotta. Prendiamo Marcel Duchamp e il suo orinatoio – pardon, la sua “Fontana” del 1917. Non è arte perché è bella (spoiler: non lo è), ma perché Duchamp ci sta ponendo una domanda filosofica fondamentale: cos’è l’arte? Chi decide cosa può stare in un museo? Come diceva Arthur Danto nel suo “La trasfigurazione del banale” (1981), “qualsiasi cosa può essere arte, ma non tutto lo è”. È il contesto, l’intenzione, il discorso filosofico che trasforma un oggetto qualunque in opera d’arte.
E qui entra in gioco il nostro amico Heidegger, che con “L’origine dell’opera d’arte” (1936) ci ha regalato mal di testa per generazioni. Secondo lui, l’arte non rappresenta semplicemente la realtà – la svela. È come se l’artista togliesse un velo dal mondo per mostrarci qualcosa che c’era sempre stata ma non vedevamo. Pensate alle scatolette Brillo di Andy Warhol: non sono solo riproduzioni di prodotti commerciali, sono uno specchio della nostra società dei consumi che ci sbatte in faccia quello che siamo diventati.
Il corpo, la mente e tutto quanto
Arriviamo agli anni ’60-’70, quando la filosofia del corpo di Maurice Merleau-Ponty inizia a influenzare artisti come Marina Abramović. Non si tratta più di dipingere corpi – si tratta di usare il proprio corpo come medium artistico. Merleau-Ponty sosteneva che percepiamo il mondo attraverso il corpo, che non siamo menti intrappolate in contenitori di carne ma esseri incarnati. E boom! Ecco l’arte performativa che esplode.

Marina Abramović che sta seduta immobile per 736 ore al MoMA (“The Artist is Present”, 2010) non sta facendo una gara di resistenza. Sta esplorando filosoficamente cosa significhi la presenza, l’incontro tra esseri umani, il tempo vissuto versus il tempo dell’orologio. Come scrive nel suo libro “Walk Through Walls” (2016): “L’arte performativa è la forma d’arte più diretta e potente perché non c’è separazione tra l’artista e l’opera”.
Ma non è finita qui. Jacques Derrida e la sua decostruzione hanno fatto impazzire generazioni di artisti concettuali. L’idea che il significato non sia mai fisso, che ogni interpretazione apra nuove interpretazioni, ha liberato l’arte dalla tirannia del “messaggio unico”. Guardate le opere di Joseph Kosuth, tipo “One and Three Chairs” (1965): una sedia vera, la foto di una sedia, la definizione di sedia dal dizionario. Qual è la “vera” sedia? Tutte e nessuna. È Platone che incontra Derrida in galleria.
Quando il virtuale diventa reale (o viceversa)
Oggi ci troviamo in piena era digitale, e indovinate un po’? La filosofia è ancora lì che detta il passo. Jean Baudrillard con i suoi simulacri e simulazioni ha praticamente predetto Instagram prima che esistesse. Secondo lui, viviamo in un mondo dove le copie hanno sostituito gli originali, dove la mappa è diventata più importante del territorio.
Gli artisti digitali come Refik Anadol creano installazioni immersive usando big data e intelligenza artificiale. Non sono solo “effetti speciali fighi” – sono esplorazioni filosofiche su cosa significhi la realtà nell’era dell’informazione. Quando Anadol proietta i sogni di una macchina sulle pareti del museo (Machine Hallucination, 2019), ci sta chiedendo: se una macchina può sognare, cosa distingue l’umano dall’artificiale?
E poi c’è tutto il discorso del postumano. Artisti come Stelarc si fanno impiantare orecchie sul braccio o si collegano a esoscheletri robotici. Non è masochismo creativo – è un’indagine filosofica su cosa significhi essere umani quando la tecnologia diventa parte del nostro corpo. Come sostiene Rosi Braidotti in “Il postumano” (2013), stiamo ridefinendo i confini tra natura e cultura, tra organico e tecnologico.
L’arte che pensa il futuro
La cosa affascinante è che l’arte contemporanea non si limita a illustrare concetti filosofici – li sviluppa, li sfida, li supera. Prendiamo l’eco-arte di artisti come Olafur Eliasson. Le sue installazioni non sono solo “belle da vedere” – sono macchine filosofiche che ci fanno ripensare il nostro rapporto con l’ambiente.
Quando Eliasson porta tonnellate di ghiaccio dalla Groenlandia a Parigi (“Ice Watch”, 2015) e le lascia sciogliere davanti al pubblico, non sta facendo attivismo spicciolo. Sta creando quello che Timothy Morton chiama “iperoggetti” nel suo libro “Hyperobjects” (2013) – realtà così vaste e complesse (come il riscaldamento globale) che non riusciamo a comprenderle razionalmente ma possiamo sentirle attraverso l’arte.
La filosofia del nuovo materialismo, con pensatrici come Karen Barad, sta influenzando artisti che lavorano con materiali viventi, batteri, funghi. Non è più l’artista che impone la sua volontà alla materia inerte – è una collaborazione tra umano e non-umano. Pierre Huyghe che crea ecosistemi complessi nelle sue installazioni (“After ALife Ahead”, 2017) sta esplorando filosoficamente cosa significhi la creatività in un mondo post-antropocentrico.
E il bello è che tutto questo casino filosofico-artistico non è roba da addetti ai lavori. Quando entrate in una galleria e vi trovate davanti a qualcosa che vi fa dire “ma che diavolo è?”, ecco, quello è il momento in cui l’arte sta facendo il suo lavoro filosofico. Vi sta costringendo a pensare, a mettere in discussione le vostre certezze, a vedere il mondo con occhi nuovi.
Come diceva Paul Klee, “l’arte non riproduce il visibile, ma rende visibile”. E la filosofia? Beh, la filosofia è la torcia che l’arte usa per illuminare gli angoli bui della nostra esistenza. Insieme, fanno un lavoro di squadra micidiale: una ti scuote, l’altra ti fa riflettere, e alla fine esci dal museo con più domande di quando sei entrato. Che poi, pensandoci bene, è esattamente quello che dovrebbe fare la buona arte. E la buona filosofia.
Bibliografia e Sitografia Ragionata
Libri che mi hanno aperto gli occhi sull’arte contemporanea
- Meeting the Universe Halfway di Karen Barad l’ho scoperto durante una mostra di bio-arte a Milano, quando un’artista mi ha detto “se non leggi Barad, non capirai mai perché lavoro con i batteri”. Aveva ragione. Il libro è tosto, non mento, ma quando capisci che le cose non interagiscono ma si creano mentre interagiscono… beh, non guardi più l’arte allo stesso modo.
- Simulacri e simulazione di Baudrillard me l’ha consigliato un amico che fa arte digitale, dicendomi “questo tizio aveva capito Instagram prima che esistesse”. È vero. L’ho letto durante un viaggio in treno e continuavo a sottolineare frasi che sembravano scritte ieri, non nel 1981. Ti fa capire perché viviamo più nelle copie che negli originali.
- Il postumano di Rosi Braidotti l’ho comprato dopo aver visto una performance dove un artista si era fatto impiantare un chip sottopelle. Volevo capire, e questo libro me l’ha spiegato. La Braidotti non usa mezzi termini: siamo già oltre l’umano, che ci piaccia o no. Perfetto per chi vuole capire dove sta andando l’arte che mescola corpo e tecnologia.
- Ti racconto una cosa: La trasfigurazione del banale di Arthur Danto l’ho letto dopo essere uscito incazzato da una mostra (“ma questi sono solo oggetti comuni!”). Questo libro mi ha calmato e illuminato. Danto spiega perché l’orinatoio di Duchamp è arte e quello del tuo bagno no, e lo fa in modo che anche tua nonna capirebbe. Da leggere assolutamente se l’arte contemporanea ti fa arrabbiare.
- L’origine dell’opera d’arte di Heidegger… ok, lo ammetto, l’ho iniziato tre volte prima di finirlo. Ma ne vale la pena. L’idea che l’arte non decora ma rivela verità nascoste del mondo mi ha completamente cambiato prospettiva. Quando ho rivisto i girasoli di Van Gogh dopo averlo letto, giuro che era come vederli per la prima volta.
- Fenomenologia della percezione di Merleau-Ponty me l’ha prestato una performer che mi ha detto “se vuoi capire perché uso il mio corpo come pennello, leggi questo”. Le prime 100 pagine sono illuminanti: percepiamo col corpo intero, non solo col cervello. Il resto è più ostico, ma quelle prime pagine valgono il prezzo del libro.
- Hyperobjects di Timothy Morton l’ho scoperto durante un workshop sull’eco-arte. Morton ha inventato questo concetto di “iperoggetti” per cose come il riscaldamento globale – troppo grandi per capirle ma ci siamo dentro. Scrive in modo un po’ apocalittico ma affascinante. Se ti interessa l’arte che affronta la crisi climatica, questo è il tuo libro.
Siti che visito quando voglio capirci qualcosa
- La documentazione di “The Artist is Present” di Marina Abramović sul sito del MoMA l’ho guardata durante il lockdown, quando avevo bisogno di ricordarmi cos’è la presenza umana. Vedere i video di persone che piangono sedute davanti a Marina… è filosofia pura fatta con due sedie. Il MoMA spiega tutto benissimo, anche i concetti più astratti.
- Il portfolio di Refik Anadol l’ho scoperto per caso cercando “arte e intelligenza artificiale”. Le sue installazioni dove l’AI “sogna” sono allucinanti. Sul suo sito puoi vedere come trasforma dati freddi in esperienze visive che ti lasciano a bocca aperta. È il futuro dell’arte digitale, credimi.

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