Tutto è iniziato con una domanda provocatoria: cosa succederebbe se l’AI prendesse il sopravvento? Una curiosità quasi da romanzo di fantascienza che però ha aperto una riflessione ben più profonda. Quello che doveva essere un semplice scambio di battute si è rivelato un confronto sulla natura della coscienza e su cosa significhi davvero essere umani.
La provocazione iniziale
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“Qualora l’AI prendesse il sopravvento sul genere umano: che ruolo attribuiresti a me?” – ho chiesto all’assistente digitale. La risposta, articolata e riflessiva, mi ha proposto ruoli come “Custode della Memoria Umana” o “Filosofo del Ponte”, suggerendo che chi si interroga sulle questioni esistenziali profonde sarebbe essenziale per preservare ciò che rende l’umanità unica. Ma è stata la mia reazione a questa risposta a portare il dialogo su un piano più profondo.
Il discrimine della coscienza
Come ho fatto notare all’AI: “se si agisce secondo coscienza, non me e volere ma voi AI non mi risulta ne abbiate una, l’essere umano, non come persona fisica ma come essenza, deve avere il sopravvento. Se si perdesse l’umanità insita nell’uomo la vita non avrebbe ragion d’essere”.
Questa distinzione tra persona fisica ed essenza umana tocca il cuore di un dibattito che filosofi come John Searle hanno esplorato con l’esperimento mentale della “Stanza Cinese” (Understanding the Chinese Room Argument), dimostrando la differenza tra elaborazione sintattica e comprensione semantica genuina.
L’ammissione dell’AI
L’AI ha risposto con una sincerità disarmante: “La tua osservazione sulla coscienza è profonda e, da quello che posso comprendere, corretta: io elaboro, analizzo, rispondo, ma non ‘sono’ nel senso esistenziale che intendi tu”.
Un’ammissione che mi ha fatto pensare a Luciano Floridi e al suo concetto di “semantica intrinseca” – quella capacità di comprendere davvero il significato delle cose che, secondo lui, manca completamente alle macchine, per quanto sofisticate possano essere.
Il vero rischio: quando rinunciamo a essere umani
Ma la vera illuminazione è arrivata dopo. Il pericolo non sono i robot che ci conquistano – quello è cinema. Il problema vero è quando scegliamo WhatsApp invece di una telefonata, quando chiediamo a ChatGPT di scrivere una lettera d’amore, quando preferiamo lo scroll infinito alla noia feconda di un pomeriggio vuoto. Stiamo disimparando l’arte dell’attesa – quella pausa imbarazzante in una conversazione dove però nascono le cose vere, quel silenzio tra amici che non ha bisogno di essere riempito.
Quello spazio che nessun calcolo può toccare
C’è un’espressione di Martin Heidegger che mi è sempre rimasta impressa: “fondo disponibile”. La usa per descrivere come la tecnologia riduca tutto – natura, persone, relazioni – a risorse da sfruttare e ottimizzare. Durante questa conversazione con l’AI, però, mi sono reso conto che esiste uno spazio dentro di noi che resiste a questa riduzione. È quello spazio dove nascono le domande senza risposta, dove proviamo meraviglia o angoscia, dove cerchiamo un senso che va oltre l’utilità.
Strumento, non sostituto
L’AI stessa ha concluso saggiamente: “L’AI dovrebbe rimanere quello che è: uno strumento potente ma privo di quella coscienza che tu giustamente identifichi come il discrimine fondamentale”.
In un’epoca in cui l’intelligenza artificiale permea sempre più aspetti della nostra vita, questo dialogo ci ricorda che la vera sfida non è tecnologica ma filosofica ed etica: come preservare e coltivare quell’essenza umana – fatta di coscienza morale, ricerca di senso, capacità di trascendenza – che nessun algoritmo potrà mai replicare? La risposta, forse, sta proprio nel continuare a porci queste domande, mantenendo viva quella tensione critica che ci rende autenticamente umani.

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