Hannah Arendt (1906-1975) Oddio, Hannah Arendt… che donna! Nata ad Hannover da una famiglia ebraica colta, una di quelle famiglie dove si respirava cultura da tutti i pori. Il padre muore quando lei è piccola, la madre la cresce con idee progressiste. Brillante fin da ragazza, va a studiare filosofia con i grandi maestri del tempo. Prima da Heidegger a Marburgo – e qui, mamma mia, tra i due nasce una relazione complicatissima che la segnerà per sempre. Poi si trasferisce da Jaspers per il dottorato, ma intanto Hitler prende il potere e… ciao ciao Germania. 1933, via, esilio forzato. Prima Parigi, poi 1941 in America, dove inizia davvero la sua carriera. “Le Origini del Totalitarismo” del 1951 è un capolavoro assoluto: riesce a spiegare come nazismo e stalinismo fossero fenomeni completamente nuovi, diversi da qualsiasi tirannia del passato. Ma il libro che la rende famosa in tutto il mondo è “La Banalità del Male” del 1963, il reportage sul processo Eichmann. L’idea che il male possa essere banale, dovuto alla mancanza di pensiero critico… roba che fa venire i brividi. Era sempre controcorrente: criticava il sionismo, non voleva essere chiamata filosofa – “sono una teorica politica”, diceva. Una tosta che non stava mai dalla parte che ti aspettavi.

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