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Arthur Danto… mamma mia, che personaggio! Nato a Detroit nel 1924, famiglia operaia, niente di intellettuale. Ma sto ragazzo aveva qualcosa di speciale. Dopo la guerra studia filosofia, diventa professore alla Columbia University e per anni se ne sta buono buono a fare il filosofo accademico. Poi nel 1964 succede una cosa: va a vedere una mostra di Andy Warhol con quelle famose scatole Brillo identiche a quelle del supermercato. E lì ha una illuminazione: “Ma che differenza c’è tra l’opera d’arte e l’oggetto comune?”. Da questa domanda nasce “La Trasfigurazione del Banale” del 1981, libro che rivoluziona l’estetica. Dice che l’arte non si riconosce da come appare, ma dal significato che ha. Geniale! Diventa pure critico d’arte per “The Nation” – roba insolita per un filosofo. Scrive tipo centinaia di recensioni, sempre con quel suo stile ironico e profondo. “The Artworld” del 1964 è l’articolo che gli cambia la vita: spiega che per capire l’arte bisogna conoscere il contesto culturale. Sembra ovvio ora, ma allora era rivoluzionario. Ha visto nascere la pop art, l’arte concettuale, tutto quanto. E sempre con quello sguardo da filosofo che si chiede: “Ma che cos’è davvero l’arte?”. Una domanda semplice che ha la risposta complicatissima.

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