Purtroppo, ogni giorno siamo sommersi da notizie sulla guerra in Ucraina. Non passa momento senza che sentiamo parlare di bombe, di morti, di città distrutte. Ma al di là dei titoli, delle mappe e dei numeri, ci sono storie vere. Storie di persone che non hanno chiesto nulla, e che ora vivono l’incubo della guerra.

Chi ha vissuto la guerra – davvero – lo dice sempre:

“La guerra non è solo sui libri di storia… è nelle lacrime di chi la sta vivendo oggi.”

E allora forse dobbiamo fermarci un attimo. Fermare il rumore delle notizie, abbassare il volume delle analisi geopolitiche, e guardare negli occhi qualcuno che è scappato da casa sua. Qualcuno che si è ritrovato senza niente. Qualcuno che resiste, anche quando sembra impossibile.

Questa guerra non riguarda solo l’Ucraina. Lo storico Timothy Snyder lo ha detto bene: mette in discussione tutto l’ordine internazionale che abbiamo costruito dopo la Guerra Fredda. Ma oltre alle strutture politiche che vacillano, c’è una realtà ben più dolorosa: milioni di vite stravolte. Famiglie spezzate. Bambini che non sanno dove dormiranno domani. Madri che stringono i loro figli mentre le sirene urlano nel cielo.

Io penso ai campi profughi in Polonia. Ai bambini ucraini che giocano tra le tende, con lo sguardo perso, come se cercassero qualcosa che non trovano più. E mi dico: questa guerra non è così lontana. Non è solo una notizia da leggere e dimenticare. È una ferita aperta nel cuore dell’Europa moderna.

Eppure, prima del 2022, molti di noi non ne parlavano quasi mai. Eppure, questa guerra era già cominciata nel 2014. Poi, quell’invasione in febbraio ha cambiato tutto. Milioni di persone hanno dovuto lasciare le loro case, spesso con solo gli abiti addosso. Niente valigie, niente saluti. Solo fuga.

Come ha scritto Anne Applebaum:

“Le guerre non sono solo questioni di territori. Sono anche questioni di identità, memoria e futuro.”

Dietro ogni numero, ogni mappa, ogni comunicato stampa, c’è una persona. Una persona che aveva un lavoro, un sogno, una vita normale. Che da un momento all’altro ha dovuto imparare a sopravvivere.

Pensiamo alla dimensione umanitaria di questa tragedia: è l’esodo più grande in Europa dalla Seconda Guerra Mondiale. Secondo l’UNHCR, milioni di persone sono fuggite. Le storie che arrivano sono quelle di notti trascorse nei bunker, di sirene che sostituiscono la musica delle giornate, di decisioni impossibili: cosa portare con sé quando puoi prendere solo uno zaino e devi lasciarti alle spalle tutta la tua vita?

E poi c’è stato quel risveglio: per molti di noi, la guerra ci ha ricordato quanto fragile sia la pace. Per anni abbiamo creduto che i conflitti su larga scala fossero roba del passato. Pensavamo che bastassero accordi, economie interdipendenti, istituzioni forti per tenere il male lontano. Invece no. La guerra ce l’ha fatta vedere la verità: la pace è una cosa delicata. Fragile.

Yuval Noah Harari ha detto che in Ucraina si combatte non solo con le armi, ma con le idee:

“È uno scontro tra visioni contrapposte di come organizzare la società nel XXI secolo.”

Da una parte, un mondo basato sul diritto internazionale, la sovranità, il rispetto reciproco. Dall’altra, un mondo dove i confini si ridisegnano con i carri armati.

Mentre scrivo queste parole, in Ucraina una madre cerca di tranquillizzare i suoi figli mentre dormono in cantina. Un anziano decide se andarsene da casa sua dopo una vita o restare, pur sapendo che potrebbe morire. Un soldato guarda una foto della sua famiglia e prega di rivederla. Una volontaria distribuisce coperte e cibo, perché sa che non può fermare le bombe, ma può dare un po’ di calore.

Questa guerra non è solo una battaglia su una mappa. È una tragedia umana. Fatta di paura, di dolore, ma anche di coraggio, speranza e solidarietà. E per questo motivo, non possiamo distogliere lo sguardo.

Svetlana Alexievich, Premio Nobel per la Letteratura, lo ha scritto con una frase bellissima:

“La guerra non ha un volto di donna, ma ha milioni di volti umani. E ognuno merita di essere visto, ascoltato, ricordato.”

Allora promettiamoci questo: di non dimenticare. Di non ridurre tutto a statistiche. Di continuare a guardare negli occhi chi fugge, chi resiste, chi spera. E di non smettere mai di provare compassione.

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